Esprimere il proprio parere e critiche verso i propri superiori gerarchici attraverso un social network può costare caro; infatti, in Francia un giudice del lavoro ha espresso parere favorevole in merito al licenziamento, per giusta causa, di alcuni dipendenti che avevano utilizzato Facebook come cassa di risonanza alle proprie lamentele.
Il caso francese pone in primo piano un problema, ovvero è lecito per il datore di lavoro monitorare, in situazioni di extra lavoro, le attività dei propri dipendenti al fine di verificare se questi assumono o meno comportamenti confacenti con la direzione aziendale?
Non esiste una legislazione che disciplina il delicato tema anche se in altri paesi hanno messo a punto norme precise a riguardo.
Ad esempio, la Germania ha emanato un provvedimento legislativo che vieta controlli online da parte delle aziende.
In particolare, in questo Paese il datore di lavoro non può raccogliere informazioni contenuti nei social network al fine di conoscere dati personali e valutare l’ideoneità del possibile candidato alle mansioni che l’azienda intende coprire.
Tornando in Francia è opportuno ricordare che il giudice del lavoro ha ritenuto valide le motivazioni adottate dall’azienda che ha visto le attività dei propri lavoratori lesivi all’immagine dell’azienda e, seconde le testuali parole riportate dal Sole 24ore (nostro autorevole quotidiano economico),
incitamento alla ribellione del personale nei confronti della gerarchia aziendale
I lavoratori interessanti si sono difesi accusando a loro volta l’azienda per violazione della privacy.
Purtroppo per i lavoratori francesi il giudice non è stato dello stesso avviso.
In effetti, secondo le motivazioni della sentenza, le frasi contenute nella pagina di Facebook sono tali da impedire il naturale rapporto di lavoro violando l’obbligo di fedeltà del dipendente incidendo sulla fiducia e sulla collaborazione: elementi essenziali di ogni rapporto.
Non solo, sempre per il giudice francese non è possibile nemmeno ravvisare la violazione della privacy poiché le pagine di Facebook erano condivise e quindi aperte a tutti.