Sarà per via di una maggiore presenza del sindacato in Cina o della richiesta, da parte dei lavoratori, di maggiori garanzie e retribuzioni più alte, le imprese cinesi stanno minacciando di chiudere le proprie aziende per riaprirle in luoghi dove le condizioni di lavoro sono più convenienti.
In effetti, le manifestazioni che si stanno sempre più diffondendosi in Cina reclamo maggiori diritti e un aumento del salario minimo: primi sperimenti di una contrattazione collettiva o di fabbrica. A questo proposito, secondo la Federazione degli industriali di Hong Kong, sono circa 20 mila aziende presenti nell’area del Pearl River Delta ad aver espresso l’intenzione di trasferirsi all’estero o ridurre la produzione in seguito all’annuncio del governo del Guangdong di alzare il salario minimo del 18-20% a partire dal prossimo mese di gennaio dopo averlo già alzato nel marzo passato.
In realtà, la decisone del governo del Guangdong non fa altro che applicare le nuove direttive di Pechino che ha tutta l’intenzione di implementare la creazione di un mercato di consumi interni.
Questa non è sola questione che fa preoccupare le industrie perché, per via della crisi mondiale, le loro produzioni sono sempre più in pericolo dato che la loro economia è basata prevalentemente sulle esportazioni. Le aziende cinesi hanno manifestato la volontà di trasferire le loro produzioni al fine di abbattere i costi del lavoro pensando a paesi quali Vietnam e Bangladesh dove gli stipendi e gli orari lavorativi sono concorrenziali persino anche per i cinesi.
In realtà il problema è ancora più complesso perché se, da una parte, le imprese cinesi vogliono un costo della manodopera più basso da quelli stabiliti e concorrenziale con i paesi vicini, parliamo di 200 dollari contro 330 circa mensili, dall’altra è anche necessario ricorrere a strutture e competenze che i paesi limitrofi non possono assicurare per la mancanza di infrastrutture o di un sistema professionale e formativo carente.