Si chiama job on call ma, qui in Italia, è sempre meglio chiamarlo “lavoro a chiamata”. Un’etichetta che permette di individuare in maniera univoca una modalità di gestione lavorativa sempre più diffusa, e sempre più in grado di rispondere alle esigenze di flessibilità organizzativa del datore di lavoro. Ma cosa cambia con le nuove regole che sono state introdotte con la riforma del lavoro sul job on call?
Una delle innovazioni fondamentali obbliga il consulente del lavoro e il datore di lavoro a comunicare obbligatoriamente l’inizio della prestazione lavorativa. La nuova norma recita infatti come prima dell’inizio della prestazione lavorativa o di un ciclo integrato di prestazioni di durata non superiore a 30 giorni, il datore debba comunicarne la durata con modalità semplificate alla Direzione territoriale del lavoro: sms, fax o posta elettronica saranno ampiamente sufficienti.
Ad ogni modo, potranno altresì individuarsi nuove o semplificate modalità in grado di rendere perfino più celere l’adempimento. Che rimane tuttavia tale, considerato che in caso di violazione della disciplina, il datore di lavoro andrà incontro a una sanzione amministrativa compresa tra 400 e 2.400 euro per ciascun lavoratore per cui è omessa la comunicazione.
Rimangono tuttavia aperti molti nodi tutt’altro che facilmente sbrogliabili. Ad esempio: se come modalità di comunicazione obbligatoria è sufficiente un solo sms, in che modo si riuscirà a renderlo tracciabile? E in che modo si potranno conservare gli sms di ogni singola chiamata al lavoro, nei cinque anni precedenti all’accesso ispettivo?
Se invece come modalità di comunicazione si opta per la semplice telefonata, in che modo la Direzione territoriale del lavoro potrà tracciare il numero telefonico del datore di lavoro o del consulente?
Problemi che la tecnologia potrebbe risolvere. Ma che per il momento sembrano essere ostacoli sufficienti per rendere il nuovo adempimento più problematico di quanto potesse sembrare in un primo momento.