Quando il datore di lavoro adibisce il lavoratore a mansioni inferiori, rispetto a quelle indicate nel contratto di assunzione, gli provoca un danno sia di natura economica sia di natura morale e professionale.
Tale comportamento consiste nella c.d. dequalificazione professionale o demansionamento.
In questi casi, il datore di lavoro ha l’obbligo del risarcimento del danno.
La suprema corte di cassazione con sentenza n. 5237 del 4 marzo 2011 ha stabilito recentemente che “la risarcibilita’ del danno all’immagine derivato al lavoratore a cagione del comportamento del datore di lavoro presuppone che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilita’, e che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi temporanei e di piccola entità”.
Il giudice nel determinare il risarcimento deve tenere conto di vari elementi, cioè della all’anzianita’ di servizio, del ruolo ricoperto dal lavoratore ed dell’eventuale carattere ritorsivo da parte del datore di lavoro.
Inoltre, il giudice può determinare il risarcimento anche in via equitativa, basandosi sugli elementi di fatto relativi alla durata della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto.
Inoltre, il giudice si deve basare anche sul bagaglio professionale e sulla specializzazione tecnica, nonche’ sul pregiudizio morale e psicologico causato al lavoratore e derivante dalla relegazione in mansioni inferiori.
La relegazione a mansioni inferiori comporta uno stato di ansia che va ad incidere negativamente anche sulla vita sociale del lavoratore.
Per maggiori informazioni si rinvia alla Cassazione.