Le dimissioni possono essere annullate se il lavoratore, sebbene non interdetto, provi di essere stato in uno stato, anche transitorio, di incapacità di intendere e di volere.
Lo ho stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 8886 del 14 aprile che ha applicato i criteri stabiliti dall’articolo 428 del codice civile.
Infatti, la Suprema Corte ha ribadito che in caso di dimissioni date dal lavoratore che si trovi in uno stato di incapacità naturale, il diritto di riprendere il lavoro nasce con la sentenza di annullamento ex articolo 428 c.p.c., i cui effetti retroagiscono al momento della domanda, stante il principio secondo il quale la durata del processo non deve andare a detrimento della parte vincitrice. Solo da quel momento nasce il diritto alla retribuzione.
In sostanza, il lavoratore ha tutto il diritto di essere riammesso al lavoro anche se l’incapacità manifestata, e confermata da una perizia, non è totale e perpetua ma frutto di impedimenti, o annebbiamenti, temporanei e discontinui.
Il diritto alla retribuzione non è però da intendersi dalla data delle dimissioni ma, semmai, deve scattare dalla data della riammissione al lavoro.
Per incapacità naturale si deve intendere una transitoria impossibilità, per un momentaneo stato di alterazione delle proprie condizioni fisiche o mentali, di rendersi conto del contenuto e degli effetti del medesimo.
Così, l’azione di annullamento delle dimissioni, in quanto rese in stato di transitoria incapacità di intendere e di volere, è subordinata alla sussistenza del requisito del grave pregiudizio per il lavoratore. In effetti, secondo l’articolo 1425 del codice civile il contratto è annullabile se una delle parti era legalmente incapace di contrattare (1441 e seguenti).
E’ parimenti annullabile, quando ricorrono le condizioni stabilite dall’articolo 428, il contratto stipulato da persona incapace d’intendere o di volere.
La giurisprudenza si è espressa più volte su questo tema. Infatti, in questa fattispecie rientrano anche i casi dove le dimissioni sono indotte dal datore di lavoro. In modo particolare, la Corte di Cassazione si è più volte espressa sull’annullabilità per violenza morale sulle dimissioni indotte da comportamenti coercitivi ed intimidatori del datore di lavoro come ad esempio la minaccia di un licenziamento che non possa essere intimato legittimamente (sentenza della Corte di Cassazione 22 marzo 2000, n. 3380).