Torniamo sull’argomento sanzionato dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea che ha richiamato il nostra Paese a rimuovere la discriminazione sulla disciplina previdenziale adottato dal nostro sistema previdenziale.
La Direttiva CE n. 97/81 mira ad estendere il diritto al lavoro part time come strumento che permetta di realizzare un mercato interno in linea con un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro nella Comunità europea. L’obiettivo si realizza attraverso un sistema regolatorio delle forme di lavoro diverse dal lavoro a tempo indeterminato, come il lavoro a tempo determinato, il lavoro a tempo parziale, il lavoro temporaneo e quello di tipo stagionale.
La Direttiva intende sollecitare misure che facilitino l’accesso al tempo parziale per uomini e donne che si preparano alla pensione e che vogliono conciliare vita professionale e familiare e approfittare delle possibilità di istruzione e formazione per migliorare le loro competenze e le loro carriere, nell’interesse reciproco di datori di lavoro e lavoratori e secondo modalità che favoriscano lo sviluppo delle imprese.
In base a queste considerazioni devono essere rimosse ogni norma dei singoli Stati che non sono in linea con la Direttiva in oggetto.
In effetti, la Corte ha stabilito che la normativa italiana sul part-time verticale ciclico viola il divieto di discriminazione imposto dalla Direttiva CE n. 97/81, in quanto esclude i periodi non lavorati dal calcolo dell’anzianità contributiva necessaria per acquisire il diritto alla pensione per i lavoratori a tempo parziale di tipo verticale ciclico. In questo modo, l’istituto previdenziale, nel caso particolare l’Inps, pone in essere una situazione di discriminazione nei confronti dei lavoratori a tempo pieno.
Teniamo presente che la direttiva 97/81/CE, Accordo quadro sul lavoro a tempo parziale, prevede la parità di trattamento tra lavoratori a tempo parziale e lavoratori a tempo pieno, oltre a definire il calcolo dell’anzianità contributiva necessaria per acquisire il diritto alla pensione.
La Corte ha rilevato che la clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale allegato alla direttiva del Consiglio 15 dicembre 1997, 97/81/CE, relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES, deve essere interpretata, con riferimento alle pensioni, nel senso che osta a una normativa nazionale la quale, per i lavoratori a tempo parziale di tipo verticale ciclico, escluda i periodi non lavorati dal calcolo dell’anzianità contributiva necessaria per acquisire il diritto alla pensione, salvo che una tale differenza di trattamento sia giustificata da ragioni obiettive.
La Corte ha anche fatto presente nell’ipotesi in cui il giudice del rinvio giunga a concludere che la normativa nazionale di cui trattasi nelle cause principali è incompatibile con la clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale allegato alla direttiva 97/81, le clausole 1 e 5 dovrebbero essere interpretate nel senso che ostano anch’esse alla normativa.
Secondo il diritto nazionale la normativa è attualmente regolata dal decreto legislativo n. 61/2000 e dal decreto del 12 settembre del 1983 n. 473.
In sostanza, secondo l’articolo 9 del suddetto decreto la retribuzione minima oraria da assumere quale base per il calcolo dei contributi previdenziali dovuti per i lavoratori a tempo parziale, si determina rapportando alle giornate di lavoro settimanale ad orario normale il minimale giornaliero di cui all’articolo 7 del decreto legge 12 settembre 1983 n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 1983, n. 638, e dividendo l’importo così ottenuto per il numero delle ore di orario normale settimanale previsto dal contratto collettivo nazionale di categoria per i lavoratori a tempo pieno.
bruttissimo tipo di contratto