Tra le righe della riforma Fornero sul mercato del lavoro, spunta anche un provvedimento che dovrebbe permettere di migliorare il grado di controllo sul fenomeno delle c.d. false partite IVA, o meglio quelle partite IVA che celano un rapporto di lavoro dipendente con una formale relazione di collaborazione autonoma e non continuativa, al fine di permettere al sostanziale datore di lavoro (formalmente, committente) di poter aggirare la più costosa normativa e i più rigidi vincoli della subordinazione professionale.
Ma in che modo il governo cerca di individuare le false partite IVA? E in che modo il fenomeno potrà effettivamente essere arginato?
Secondo quanto previsto nella bozza della riforma del lavoro che l’esecutivo vorrebbe che il Parlamento licenziasse nella sua versione attuale, lo strumento è un meccanismo di “presunzione” quantitativa, che farebbe scattare un automatismo tale da far ricadere il rapporto di collaborazione autonoma all’interno del recinto delle subordinazioni. Due sembrano essere i principali parametri di calcolo.
Il primo è un parametro prettamente temporale. In altri termini, non rivestirebbe più una “normale” relazione di collaborazione autonoma quella relazione di lavoro che si trascina per più di sei mesi all’anno, accompagnato magari dall’utilizzo dei locali dell’azienda presso i quali il (presunto) libero professionista svolgerebbe la sua professione. Un termine relativamente di facile calcolo, che tuttavia non può, da solo, univocamente dimostrare l’esistenza della falsa partita IVA nei termini sopra espressi.
Il secondo elemento è pertanto quello relativo ai compensi ottenuti. In altri termini, costituisce determinate potenziale della falsa partita IVA quella situazione nella quale il collaboratore ha percepito, nell’arco di un esercizio solare, più del 75% dei suoi compensi da un unico committente. Se i controlli evidenzieranno la presenza contemporanea dei due termini di cui sopra, scatterebbero le successive verifiche finalizzate ad analizzare la “normalità” della relazione.
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