Nella Regione Lazio c’è un vero e proprio esercito di lavoratori atipici, ovverosia persone con contratti di lavoro che non sono a tempo indeterminato ma, ad esempio, di collaborazione coordinata e continuativa a progetto. Sono ben 250 mila gli atipici nella Regione, in accordo con quanto reso noto dal responsabile per l’analisi e la diffusione dei dati sulle forze di lavoro Istat, Mario Albisinni, intervenuto nei giorni scorsi ad una tavola rotonda dal titolo “I nuovi esclusi dal mercato del lavoro: gestione del precariato, transizione nel mercato del lavoro, politiche di reddito”. Questo esercito di 250 mila precari, in quasi sette casi su dieci, è composto da giovani sotto i 34 anni, ma la crisi ha fatto sì che dal terzo trimestre 2008 al terzo trimestre dello scorso anno i precari che mancano all’appello, perché nel frattempo sono diventati disoccupati, siano stati nel Lazio ben 21 mila.
Mario Albisinni ha tra l’altro sottolineato come a fronte del calo dei lavoratori precari sia aumentato nel Lazio il ricorso al contratto di lavoro a tempo indeterminato che ha interessato in prevalenza gli stranieri per la regolarizzazione di attività di collaborazione e di assistenza domestica, ma allo stesso modo c’è stato un incremento del ricorso al contratto di lavoro stabile anche nel settore della ristorazione.
Pur tuttavia, è stato rilevato come nel Lazio il periodo di precarietà per gli atipici sia di lunga durata, in particolare sopra i quattro anni, per il 64% di questi, mentre su scala nazionale la percentuale è più alta e pari al 71%. Tra i precari, inoltre, al fine di poter lavorare occorre fare delle scelte che non sono proprio dettate dalla propria volontà, a partire dalla scelta del lavoro part-time anche se il lavoratore gradirebbe un’occupazione a tempo pieno; in merito, infatti, Mario Albisinni ha sottolineato come per i collaboratori part-time nel 67% dei casi la scelta di questo rapporto di lavoro risulti essere “involontaria”.
La precarietà, quindi, è come noto rappresentata in prevalenza dai giovani, i quali nell’accesso al mercato del lavoro non riescono a valorizzare a pieno, con un’occupazione a tempo pieno e stabile, il proprio bagaglio di conoscenze acquisite magari dopo un duro ma anche brillante percorso universitario. Con la conseguenza che il nostro Paese, molto spesso, vede i nostri migliori laureati andare all’estero e fare la fortuna delle nazioni “ospitanti”.