La Corte Costituzionale, con sentenza n. 331 del 12 dicembre 2011, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 4-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 26, lettera f), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica).
La sentenza si riferisce nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati previsti dal comma 3 del medesimo articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
La decisione è il risultato dell’ordinanza depositata il 27 aprile 2011 dalla Corte di cassazione che ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 4-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 26, lettera f), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica).
La Corte Costituzionale, ribadendo il principio di inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.) e la presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), osserva che la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del minore sacrificio necessario. In sostanza, la compressione della libertà personale va contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della «pluralità graduata», predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale; dall’altra, a prefigurare criteri per scelte «individualizzanti» del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete.
Sempre secondo la Consulta queste considerazioni non sono contraddette dalla disciplina generale del codice di procedura penale, basata sulla tipizzazione di un «ventaglio» di misure di gravità crescente (artt. 281-285) e sulla correlata enunciazione del principio di «adeguatezza» (art. 275, comma 1): in base a queste considerazioni il giudice è tenuto a scegliere la misura meno afflittiva tra quelle astrattamente idonee a soddisfare le esigenze cautelari ravvisabili nel caso concreto e, conseguentemente, a far ricorso alla misura “massima” (la custodia cautelare in carcere) solo quando ogni altra misura risulti inadeguata.