La legge n. 198/2006, che riprende le disposizioni della vecchia legge del 9 gennaio n. 7 del 1963, considera nulli i licenziamenti delle lavoratrici effettuati nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni al matrimonio. In caso di licenziamento è il datore di lavoro che deve dimostrare che la causa non ha a che fare con le nozze.
La legge in esame considera nulle le clausole di qualsiasi genere, contenute nei contratti individuali e collettivi, o in regolamenti, che prevedano comunque la risoluzione del rapporto di lavoro delle lavoratrici in conseguenza del matrimonio.
Non solo, sono anche considerate nulle le dimissioni presentate dalla lavoratrice, in forma volontaria, nello stesso periodo a meno che non siano confermate entro un mese alla Direzione provinciale del lavoro.
Al datore di lavoro è data facoltà di provare che il licenziamento della lavoratrice è stato effettuato non a causa di matrimonio, ma per colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro o per la cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta o, infine, a causa dell’ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine.
Sempre secondo il testo legislativo, con il provvedimento che dichiara la nullità dei licenziamenti è disposta la corresponsione, a favore della lavoratrice allontanata dal lavoro, della retribuzione globale di fatto sino al giorno della riammissione in servizio.
La lavoratrice che, invitata a riassumere servizio, dichiari di recedere dal contratto, ha diritto al trattamento previsto per le dimissioni per giusta causa, ferma restando la corresponsione della retribuzione fino alla data del recesso. A questo scopo il recesso deve essere esercitato entro il termine di dieci giorni dal ricevimento dell’invito.
Il disposto si applica sia alle lavoratrici dipendenti da imprese private di qualsiasi genere, escluse quelle addette ai servizi familiari e domestici, sia a quelle dipendenti da enti pubblici, salve le clausole di miglior favore previste per le lavoratrici nei contratti collettivi ed individuali di lavoro e nelle disposizioni legislative e regolamentari.