Arriva dall’Europa, decisione della Sesta Sezione della Corte di Giustizia dell’11 novembre scorso, un pronunciamento sulla disposizione contenuta nell’articolo 2 comma 1 bis del decreto legislativo n. 368/01.
Premesso che l’accordo quadro sul lavoro determinato è stato concluso il 18 marzo del 1999 ed è stata inserita in allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, 1999/70/CE, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato.
In riferimento alla norma italiana, la Corte di Giustizia Europea ha precisato che la clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato deve essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale, quale quella prevista dall’articolo 2, comma 1 bis, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, recante attuazione della direttiva europea che, a differenza del regime giuridico applicabile prima dell’entrata in vigore di questo decreto, consente a un’impresa, come ad esempio le Poste Italiane SpA, di concludere, rispettando determinate condizioni, un primo o unico contratto di lavoro a tempo determinato con un lavoratore.
La norma permette di non indicare le ragioni obiettive che giustifichino il ricorso a un contratto concluso per una durata temporanea, dal momento che questa normativa non è collegata all’attuazione dell’accordo quadro.
Secondo la Corte, quando il contratto a termine è uno solo non si pone il problema della compatibilità con la prescrizione comunitaria, ma può succedere, però, che i contratti a termine possono essere più di uno.
I giudici di merito hanno avuto modo di pronunciarsi sulla questione, dando alla stessa una soluzione non univoca.
In effetti, ricordiamo che, pur essendo legittima la norma dell’articolo 2 comma 1 bis del decreto n. 368/01, si contrappone quella diversa, per la quale l’Unione Europea raccomanda di contrastare l’indiscriminata reiterazione dei contratti a termine, ma lascia aperta agli stati membri la facoltà di scegliere il mezzo, che può consistere nella casuale oppure nell’indicazione di un limite di durata.
Il nostro legislatore ha previsto un limite quantificato a 36 mesi, così come previsti dal protocollo welfare.
Ricordiamo, per completezza, che la disposizione contenuta nell’articolo 2, comma 1 bis, del decreto n. 368/01 è stata anche impugnata davanti alla Corte Costituzionale.
La Suprema Corte, con sentenza n. 124/2009, ha però escluso qualsiasi profilo di incostituzionalità.